EDITORIALI
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(Antonio Gaudiano) - Semplificando,  e di molto, potremmo dire che le rivoluzioni non hanno mai avuto origine dal popolo. Questo è intervenuto successivamente: ha fatto massa, ha dato corpo alla rivolta teorizzata da altri. Le rivoluzioni normalmente hanno avuto origine dalla classe di mezzo: quella che non beneficiava dei privilegi, ma che poi tanto male non stava come il proletariato o come il terzo o quarto stato. Le rivoluzioni sono state teorizzate dagli intellettuali, che normalmente si fanno rientrare nella classe borghese. E quando è ‘partita’ dai giovani si è sempre trattato di studenti.

Teorizzare una rivoluzione, non significa affatto realizzarla. Occorrono molti elementi e circostanze affinché dalle parole si passi ai fatti: 1) che chi detiene il potere si comporti da tiranno, ovvero: sia dispotico, tratti male il suo popolo affamandolo, togliendogli tutti i diritti, riservando per sé privilegi, ricchezze e soprattutto ostentando queste ultime; 2) il popolo deve rompere quella che viene denominata sindrome di Stoccolma per la quale un soggetto mentre viene maltrattato arriva a provare un sentimento positivo verso il suo carnefice, un sentimento che giunge fino all’amore per il suo maltrattatore; 3) deve ritenere valide le teorie rivoluzionarie e 4) deve ritenere che i tempi siano maturi per attuarle.

Non sempre dalla rivoluzione deriva una situazione migliore di quella precedente. Qualche volta, infatti, il rimedio si rivela peggiore del male. Si pensi per quest’ultima ipotesi a quella che è stata chiamata ‘Primavera araba’ (che ha inizio in Tunisia il 17 dicembre 2010 e porta alle dimissioni del rais Ben Ali,  estendendosi successivamente all’ Egitto, Libia, Bahrein, Yemen, Marocco, Algeria, Giordania e Siria) dove vari popoli, appunto, hanno cacciato il dittatore di turno; ma alcune di quelle nazioni oggi vivono nel marasma più totale: insomma,  alla fine,  era meglio quando si stava peggio.

Quando si dice ‘rivoluzione’ si pensa automaticamente ad un atto cruento attraverso il quale il popolo passa per le armi il re, lo zar o il dittatore tiranno. Esistono invece altre rivoluzioni, non cruente, attraverso le quali nel tempo si trasforma il comune sentire di un popolo: le rivoluzioni culturali, appunto.

Accanto a rivoluzioni che coinvolgono un’intera Nazione, esistono rivoluzioni che coinvolgono le piccole realtà nelle quali viviamo. O, se vogliamo, dovrebbero porsi come imperativi categorici l’attuazione di queste.

Vivono nelle nostre piccole comunità ‘reucci’ e ‘zarine’ che occupano ‘posti’ magari senza alcun merito, che non sono attrezzati a coprirli: che non hanno voglia di fare e che non  vogliono che altri facciano, mettendosi da parte.

E, allora, un giovane che voglia impegnarsi in politica per esempio si guarda intorno e si avvede che tutti i partiti politici (che si sono ricostituiti dopo lo tzunami di mani pulite) sono letteralmente occupati da persone che non ti permettono di entrare. Non vogliono fare, non vogliono che tu faccia. Il giovane del nostro esempio che ha voglia di fare rivolgerà le sue attenzioni verso l’associazionismo (gruppi culturali, pro loco, etc.) anche lì troverà le porte sbarrate dal reuccio di turno attorniato e sostenuto nel suo non far niente da una corte che con lui condivide la stessa mentalità. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Questi sono dei veri e propri ‘tappi’ che non permettono allo spumante (quello buono) di esplodere. La rivoluzione, quella incruente, una rivoluzione sacrosanta,  va fatta contro questi soggetti. Vanno mandati a casa. Subito.

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