Basso Volturno
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Cancello ed Arnone (Matilde Maisto) – Il gruppo storico dei soci di “Letteratitudini” (Matilde Maisto, Raffaele Raimondo, Felicetta Montella, Marinella Viola, Laura Sciorio, Lella Coppola, Giannetta Capozzi, Maria Sciorio, Arkin Jafuri),  nel 1° Centenario dell’entrata in guerra dell’Italia nel Primo Conflitto Mondiale,  ha organizzato un incontro dal tema: La “Grande Guerra”: dolore ed umana pietà nella testimonianza poetica di Giuseppe Ungaretti.

Come sappiamo l’Italia e l’Europa nel 2015 ricordano il centenario della “Grande Guerra”, un conflitto caratterizzato da decine di milioni di morti, infatti fra il 1914 e il 1918 il mondo fu sconvolto dalla Prima Guerra Mondiale, uno spartiacque storico che segnò la fine di un’epoca: l’età delle rivoluzioni industriali, dell’illuminismo e del positivismo, con la sua ottimistica fiducia nella razionalità, nel progresso e nella scienza, terminò nel sangue.
La scintilla della Grande Guerra fu l’attentato di Sarajevo, avvenuto esattamente 101 anni fa, il 28 giugno 1914. L’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono d’Austria-Ungheria, e sua moglie Sofia, in visita nella città, caddero sotto i colpi di pistola esplosi dal rivoluzionario bosniaco Gavrilo Princip.
Fu così che ebbe inizio la guerra, ufficialmente un mese più tardi, il 28 luglio 1914, e fu un evento destinato a cambiare radicalmente non solo la geopolitica dell’Europa, ma anche il modo di pensare e di agire dei suoi cittadini.
L’Italia dichiarò guerra all’Austria il 24 maggio 1915, entrando così nella Prima Guerra Mondiale. I  nostri morti nel conflitto furono 1,24 milioni. Di questi 651mila militari e 589 mila civili.

E’ proprio in questo contesto storico che il professore Raffaele Raimondo, eccellente relatore della serata,  ci ha deliziati ripercorrendo in una obbligata sintesi, l’itinerario poetico e la vicenda umana di Giuseppe Ungaretti: uomo del nostro tempo, poeta che fu unico fin dal suo esordio e, per tutta la vita, mantenne fede a quella espressione, direi quasi filosofica, dell’uomo di pena. Attraverso le varie fasi del suo percorso Ungaretti riuscirà sempre ad inserire sulla sua lingua poetica, popolare e parlata, i sensi di cui si accresceva come Uomo, rimanendo sempre fedele a quella urgenza, già presente in lui fin fai tempi del Porto Sepolto e poi dell’Allegria, ovvero la necessità umana che la storia della sua poesia non sarebbe stato altro che un diario e la storia della propria vita un’autobiografia scritta appunto per necessità umana.

Non a caso Ungaretti scriveva in ogni luogo, come non ricordare i suoi scritti d’impeto in trincea, sdraiato sul fango, accanto ad un suo compagno morto, mentre con un lapis segnava i versi sul suo quadernetto: Un’intera nottata/buttato vicino/ a un compagno massacrato… nel mio silenzio/ ho scritto/lettere piene d’amore./Non sono mai stato/tanto/attaccato alla vita. (23 dicembre 1915).
Non v’è dubbio, quindi, che tutta la sua poesia nascerà e si fonderà sulla esperienza diretta, umanamente vissuta, dolorosamente sofferta.
Ricordiamo un brevissimo e celebre componimento, incluso nella raccolta “Allegria di naufragi”. Si sta come/d’autunno/sugli alberi/le foglie. Poesia formata da un’unica e pregnante similitudine, che equipara i soldati alle foglie autunnali, simboleggiando la precarietà dell’esistenza umana durante la guerra. In essa è evidente il senso della tragedia esistenziale del primo conflitto mondiale. Anche in questo caso i versi sono scritti in trincea presso il bosco di Courton, vicino a Reims. A questo sentimento si associa l’estrema brevità del testo, che sembra quasi una fulminante scoperta della condizione assurda in cui versano i “soldati”.

Tuttavia, “L’Allegria di Naufragi” è anche la presa di coscienza di sé, è la scoperta che tutto è naufragio, tutto può essere travolto, soffocato, consumato dal tempo; è l’esultanza che l’attimo offre proprio perché fuggitivo, quell’attimo che soltanto amore può strappare al tempo, quell’allegria che non avrà mai se non il sentimento della presenza della morte da scongiurare.

Quella presa di coscienza di sé culmina con il canto “I fiumi” dove sono enumerate le quattro fonti, il Nilo, il Serchio, l’Isonzo, la Senna: i fiumi che mescolano le loro acque con il sangue del poeta.

 
  

Il Nilo è il fiume che bagna Alessandria d’Egitto dove il poeta è nato, il fiume della sua infanzia e dell’adolescenza, denso di tutta l’inesperienza e l’incosapevolezza di quell’età. Quegli anni passati in Egitto sono formativi per il poeta e quel paesaggio, quella malinconica dolcissima cantilena del beduino, quel deserto ondeggiante in cui si muove da ragazzo, è pur sempre un deserto pieno di oasi, di luoghi di speranza.

Il Serchio, invece, è il fiume che scorre vicino a Lucca, la città originaria dei suoi genitori, il fiume degli avi del poeta, il fiume dove affondano le sue radici.

La Senna che bagna Parigi dove il poeta visse parte della giovinezza, il fiume che fu testimone della sua formazione culturale e della sua maturazione morale. In questo periodo vi furono le letture e le lezioni di Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé fino all’amicizia di Apollinaire.

Ed infine l’Isonzo nelle cui acque come uomo si è liberato dalle tossine della guerra ed ha provato la sensazione di far parte della vita universale e si sente una docile fibra dell’universo, mentre le acque del fiume penetrano nel suo corpo facendolo sentire in armonia con l’universo.

Un incontro assolutamente eccezionale, condotto dal Professore Raffaele Raimondo con grande competenza che ci ha fatto vivere momenti di autentica, malinconica dolcezza con l’ascolto di alcuni canti di cori alpini: “Era una notte che pioveva” – “La montanara”. Naturalmente sono state declinate meravigliose poesie, come: Caino – San Martino del Carso – Fratelli – Dove la Luce – La Madre – Giorno per Giorno – M’illumino d’Immenso.

E, dopo esserci illuminati d’immenso, ci siamo dati appuntamento al mese prossimo con un’antologia di poesie dedicate al mare, dal titolo: “Al centro della nostra vita: il mare”.


 

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