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Caserta (Nando Cimino) -  I dati diffusi nelle scorse ore dalla Svimez, l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel mezzogiorno, relativi al rapporto annuale sullo sviluppo del sud, hanno generato reazioni di varia natura. Appare evidente, scorrendo quei rilevamenti che, il sud, soffre di una serie di mali indotti, aggravati, anche, dalle mancate politiche di investimento sui territori. Nel rapporto annuale, si legge: “Un Sud – riporta la Svimez - a rischio desertificazione umana e industriale, dove si continua a emigrare (116mila abitanti nel solo 2013), non fare figli (continuano nel 2013 a esserci più morti che nati), impoverirsi (+40% di famiglie povere nell'ultimo anno) perché manca il lavoro (al Sud perso l'80% dei posti di lavoro nazionali tra il primo trimestre del 2013 e del 2014); l'industria continua a soffrire di più (-53% gli investimenti in cinque anni di crisi, -20% gli addetti); i consumi delle famiglie crollano di quasi il 13% in cinque anni; gli occupati arrivano a 5,8 milioni, il valore più basso dal 1977 e la disoccupazione corretta sarebbe del 31,5% invece che il 19,7%”. L’analisi degli esperti legati alla Svimez, sollevano reazioni diverse e invitano, in primis, la gente del sud, a riflettere. Una sintesi del pensiero comune è espressa nella lettera vergata dalla segretaria del circolo cittadino del Pd, Cira Napolitano. Napoletana di nascita e casertana di adozione, la responsabile politica, non perde occasione per rimarcare, con orgoglio, la sua appartenenza a quel sud che, da almeno 154 anni, è dipinto costantemente a tinte fosche. Una lettera indirizzata all’amico, Dario, dal retrogusto amaro, che qui pubblichiamo integralmente.

Dario, amico mio.

Ho sentito il bisogno di scriverti, di mettere le parole in rilievo sulla carta, non mi era sufficiente parlarti.
Come sta la tua Milano, e tu, tifi sempre Inter?
Non voglio raccontarti di cose solo mie, ma voglio dirti di noi, noi che abitiamo sotto la linea di demarcazione, noi del Sud.
Ho letto le cifre del rapporto, e non ho potuto fare a meno di sorridere.
Non ti sfuggirà che il mio era un incedere tra rivoli conosciuti e, questo sorriso accennato, era per quelli che, d’impeto e d’imperio, hanno cominciato una cantilena che ben conosco.
Mi chiedo, e ti chiedo, cosa è cambiato da cent’anni a questa parte?
Sempre la stessa storia, sempre la stessa indignazione.
Parole, parole, parole.
Bella la canzone di Mina, sembra dedicata a noi.
Sai Dario, alcuni di noi, noi del Sud intendo, non abbiamo mai imparato il senso del diritto.
Noi non chiediamo ciò che ci spetta, ciò che è nostro.
Elemosiniamo, quasi non ci fosse dovuto.
E cerchiamo l’amico, il conoscente che ci indichi la via, che ci faccia strada, che ci dia, per volontà divina, ciò che dovremmo avere per banale esistenza umana.
Altri di noi, sempre noi dei Sud, i terun come dite voi, non hanno invece imparato il senso del dovere, e allora, si arricciano, si mescolano, si arrischiano e chiedono, sempre ai soliti amici, la via più breve, quella meno faticosa, quella che sembra più scorrevole.
Fa caldo stasera, ti scrivo seduta sul mio bel terrazzo.
Se guardo ad est vedo il Vesuvio, se mi sposto con lo sguardo mi immergo nella Reggia.
Bello il nostro Palazzo reale, bello visto da lontano e in questa semi oscurità.
Le deturpazioni che ha subito non le voglio ricordare, non stasera.
Perdonami, divago.
Hanno scoperto che non siamo manco più capaci di fare figli, noi che ne facevano a iosa; hanno pure scoperto che il nostro Pil è crollato e che stiamo peggio dei greci.
Che scoperta, mio caro Dario, che scoperta!
Noi siamo lenti, ci muoviamo poco.
Noi, non abbiamo il senso di noi.
E questo è il nostro problema, questo è il nostro limite.
Siamo singoli tra una moltitudine.
E allora ti chiedo: a che servono gli appelli?
Quando sento parlare di politica industriale, di rigenerazione urbana e patrimonio culturale, non posso fare a meno di sorridere.
Mi pare la Salerno- Reggio Calabria. Ti fermi ogni dieci chilometri e non per apprezzare le bellezze naturali.
Oggi ho letto, che dai nostri territori, va via anche la mafia.
Non concordo.
I mafiosi sono radicati, cattive radici, ma radici difficili da estirpare, profonde e ramificate.
E chi ci dovrebbe salvare da noi stessi?
La fantomatica politica industriale?
Quella può servire, come serve una tachipirina, ma qui c’è bisogno di antibiotici.
C’è bisogno di quel senso di
noi che ci è sconosciuto.
Ma io sono fiduciosa, mio caro Dario.
L’Unità è stata cosa vostra, noi non eravamo pronti.
Prima o poi lo capiremo.
Ma veniamo a noi.
So che anche quest’anno verrai a Sorrento per le vacanze.
Ti aspetto insieme alla mozzarella che ti piace tanto.
Un pezzo di Sud prêt-à-porter (e a man

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