EDITORIALI
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(Antonio Gaudiano) - Arrivammo nel porto di Palermo di buon mattino,

con un traghetto proveniente da Napoli. Era il 23 maggio di vent’anni fa. Due giorni prima il 21 c’eravamo sposati io e Angela. Stavamo in prua e vedevamo dall’alto il porto e le sue strutture che diventavano sempre più grandi e vicine. L’aria del mattino era molto fresca. La nave attraccò in un porto che a quell’ora era quasi vuoto. Scendemmo dalla stiva con l’auto piena di valige. C’avviammo verso il centro di Palermo per cercare un albergo, visto che non ne avevamo prenotato uno prima. Volevamo ‘inventarci’ il viaggio di nozze al momento e non essere legati ad orari e itinerari prestabiliti.

Percorremmo via Maqueda, puntando verso il centro della città. Arrivati ai Quattro Canti, svoltammo a sinistra per via Vittorio Emanuele e appena sulla sinistra scorgemmo il Grande Albergo Sole, dove decidemmo di fermarci. Attraversata la strada, proprio di fronte all'albergo è situata piazza Pretoria, che i palermitani chiamano ‘Piazza della Vergogna’ per via che la fontana che vi si trova (Fontana Pretoria) ha delle statue nude. In quella piazza si trova Palazzo delle Aquile, che ospita il Comune di Palermo.

Prenotata la stanza il concierge ci segnalava la possibilità di utilizzare un bus navetta che nel pomeriggio con una guida ci avrebbe portato a fare un giro turistico per la città. Accettammo l’invito. Nel primo pomeriggio il bus passò. Salimmo. La guida ci fece accomodare ai primi posti nell’autobus, visto che eravamo l’unica coppia di lingua italiana, ed in questo modo poteva esprimersi in lingua inglese e fare la traduzione simultanea ‘personalizzata’.

Se vai a Roma non puoi non andare a vedere il Papa o comunque San Pietro, così se vai a Palermo non puoi mancare una visita al santuario di Santa Rosalia sul monte Pellegrino: ‘Pellegrino mount’ come più volte ripeteva la guida.

Dal monte Pellegrino Palermo appariva posta tra una lunga distesa di aranceti e il mare.

Ritornammo verso l’albergo ed erano da poco passate le 18,00. L’autobus percorse Via Vittorio Emanuele con direzione Quattro Canti, all’inverso di come l’avevamo percorsa nella mattinata. Ci facemmo scendere molto prima dell’albergo, più o meno all’altezza di Via Pannieri, che conduce al famoso mercato della ‘Vucciria’. Volevamo fare due passi a piedi.

Scesi dal bus: l’inferno.

Elicotteri della polizia e dei carabinieri volteggiavano nell’aria. Auto delle forze dell’ordine che percorrevano le strade a sirene spiegate e sembravano impazzite. Non si capiva dove fossero dirette. Ma erano tante. Ci guardammo in faccia meravigliati: se ogni sera succede questo è proprio un inferno questa città.

Un’auto della polizia rimase bloccata nel traffico, a sirene spiegate. Il mio sguardo s’incrociò con quello del poliziotto: aveva un viso tirato, incazzato, gli occhi gonfi di lacrime.

Arrivammo in albergo e chiedemmo la chiave. Il congierge stava parlando con un signore che gli chiedeva: ma cosa hanno usato? E lui: si dice, forse un bazuka.

Insomma, era successo veramente qualcosa di molto grosso. Appena entrato in camera accesi la televisione: le prime immagini documentavano una strage. Avevano ucciso il giudice Giovanni Falcone e la sua scorta. E per fare questo non avevano esitato a far saltare in aria un tratto della superstrada, all’altezza di Capaci.

Più le immagini scorrevano più l’incredulità lasciava il posto ad una sola domanda: e ora? Quell’uomo che aveva più volte ribadito che la mafia non è invincibile, ma che come ogni fenomeno umano ha un inizio ma anche una fine, era stato così platealmente ammazzato. E ora? Quale sarebbe stata la risposta, dei cittadini, della politica, delle forze dell’ordine. La mafia è veramente invincibile o, come diceva Falcone, poteva essere sconfitta. Nonostante tutto: nonostante Capaci.

Proprio il 23 maggio si stavano svolgendo, trascinando, le elezioni per scegliere il successore di Francesco Cossiga alla Presidenza della Repubblica. Non c’era accordo tra le forze politiche e si era giunti al quindicesimo scrutinio con un nulla di fatto. Un altro scrutinio si sarebbe dovuto svolgere il 25 maggio, giorno in cui erano stati fissati i funerali del giudice Giovanni Falcone della moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta: Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo.

Come si può comprendere dal 23 maggio al 25 (giorno dei funerali) furono ore vissute in apnea. Palermo era una città tramortita, incredula. Una città che all’improvviso si vedeva togliere la speranza, alla quale il fiato diventava corto. Senza futuro. L’unico oggetto di conversazione era l’attentato, che con il passare delle ore s’arricchiva di particolari che lo rendevano (se possibile) ancora più terribile.

La sera del 24 Palermo era deserta. Nessuno per strada. Attraversammo via Vittorio Emanuele, salimmo i gradoni di Piazza Pretoria, costeggiammo il Municipio. Eravamo soli in strada. Ricordo questa città spettrale. Dietro al palazzo delle Aquile un’altra piazzetta dove c’era una pizzeria. Qualche persona seduta ai tavoli fuori  il locale c’era. Avevi la sensazione di un’oasi nel deserto. Decidemmo di ritornarcene all’albergo.

Il giorno dopo il congierge ci domandò: dove andate di bello oggi. Sapeva che eravamo in viaggio di nozze e che in fondo nonostante la gravità del fatto che era accaduto, pensò che fosse stato giusto che continuassimo il nostro viaggio di piacere. Quando gli risposi che eravamo diretti al funerale di Falcone rimase interdetto. Nel riprendersi la chiave della stanza, semplicemente annuì. Come dire: è giusto.

La basilica di san Domenico, dove dovevano svolgersi i funerali, era a qualche centinaio di metri dall’albergo. Decidemmo di fare a piedi il tratto di strada. Usciti dall’albergo, c’incamminammo verso via Roma. La piazza era ancora accessibile, perché era ancora presto. Entrammo in chiesa e a metà della Basilica fummo fermati dalla sicurezza. Mostrai il tesserino da giornalista e ci fecero passare. Ci sistemammo sotto la postazione della Rai a ridosso dei posti riservati alle autorità. Già, le autorità. L’unico a passare indenne dai fischi e ad entrare dalla porta centrale della Basilica fu Pannella. Gli altri furono costretti - per motivi di sicurezza, ma anche per opportunità - ad entrare per una porta laterale.

Ero ben cosciente che da lì a poco avrei assistito ad un evento storico. I palermitani e non solo sarebbero stati costretti a scegliere da che parte stare.

Ma chi aveva deciso la fine di Falcone, aveva anche stabilito di andare avanti nella mattanza, di fare piazza pulita. Aveva già deciso di eliminare anche l’altra memoria storica dell’antimafia: Paolo Borsellino. A chiara dimostrazione che quella intrapresa da Falcone e Borsellino era la via maestra per annientare la mafia.

All’ingresso delle quattro bare, partì un applauso liberatorio. L’emozione era palpabile ed a stento si riusciva a trattenere le lacrime. Non era solo mafia: c’era qualcosa di più in quell’attentato. E questa certezza aumentava l’angoscia. “Io vi perdono, ma voi vi dovete inginocchiare …”. Non realizzai di chi fosse quella voce rotta dal pianto. Non conoscevo Rosaria Costa, moglie dell’agente di scorta Vito Schifani.

Il cardinale Pappalardo allora vescovo di Palermo, che celebrava il rito funebre, nell’omelia buttò lì un interrogativo al quale a distanza di un ventennio ancora non si è dato risposta: chi ha riferito che Giovanni Falcone in quel giorno e a quell’ora si sarebbe trovato su quella strada che dall’aeroporto di Punta Raisi (oggi: “Falcone – Borsellino”) conduce a Palermo.

A distanza di vent’anni solo la manovalanza ha un nome. Dei mandanti nulla. Questa circostanza rende chiara la matrice, non solo mafiosa, delle stragi di Falcone e di lì a qualche giorno di Borsellino.

Il mio viaggio di nozze è proseguito. Ma quell’ “interruzione” era un atto dovuto. Un omaggio ad un grande italiano.

(foto ANSA)

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