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Diviso, il Sud non va lontano. La frammentazione del Mezzogiorno continentale

in sei regioni non ha radici storiche né giustificazioni economiche: rende il territorio più debole politicamente e meno efficiente. Un Sud unito e con un rapporto saldo con la Sicilia avrebbe un peso in Italia e in Europa di gran lunga superiore a quello delle sette “piccole capitali” attuali.
Aggregare il Mezzogiorno è quindi un obiettivo strategico di Unione Mediterranea, ma il processo va favorito avviando da subito azioni concrete e simboliche al tempo stesso, come potrebbe essere – ad esempio – la simultanea approvazione nei sei consigli regionali di una legge unica per lo sviluppo del Sud la quale, dopo aver ascoltato le parti sociali, promuova gli investimenti e dia un colpo alla burocrazia.
Il Sud deve imparare a muoversi come un solo soggetto anche nella programmazione di investimenti sulle infrastrutture, soprattutto quelle per la mobilità. Senza una possibilità di spostarsi bene sul territorio, tutte le eccellenze su cui possiamo contare per promuovere lo sviluppo, dall’agroalimentare al turismo di qualità, non solo basato sulla presenza del mare ma anche su quella dei beni archeologici di cui abbondiamo, non sono in grado di produrre nulla.

Il brano che segue è tratto da “Separiamoci” di Marco Esposito.

Separazione come soluzione?

Per capire se la separazione può essere una prospettiva politica, occorre porsi subito una domanda: conviene separarci? La risposta è sorprendentemente facile: prima no, ma dal 2011 in poi il Sud può permettersi il poco che ha. Nel Sud (qui riferito per comodità di ripartizione statistica a 8 Regioni, isole comprese) vive il 34% degli italiani, circa un terzo. La ricchezza prodotta, per le note ragioni, è solo il 24%, ovvero circa un quarto del totale. Le tasse versate nella cassa comune – nonostante si dica che il Sud sia il regno dell’evasione – sono appunto circa un quarto del totale nazionale. In base al principio che ciascuno dà in proporzione alle proprie possibilità e riceve in proporzione ai propri bisogni, il Sud dà il 24% e dovrebbe ricevere il 34%, ovvero una quota vicina al numero di bambini, anziani, persone cui assegnare servizi sociali. In realtà lo Stato, fino al 2010, svolgeva un effetto di parziale riequilibrio nella distribuzione delle risorse, sia pure decrescente nel tempo (la spesa complessiva in conto capitale, cioè per investimenti, destinata al Mezzogiorno è scesa dal 40% del 2001 al 34% del 2010). Tuttavia, dopo le manovre finanziarie del 2011-2012, tale effetto si è attenuato o si è addirittura ribaltato e ormai destina al Sud un valore vicino al 24% come spesa corrente (stipendi e pensioni, in primo luogo) comprensiva degli interessi sul debito; mentre spende un po’ di più, il 30%, come quota di investimenti. Il beneficio degli investimenti è solo in apparenza dovuto alla volontà dello Stato italiano, in quanto è legato per oltre metà al flusso di fondi europei, per cui il bonus rispetto alla quota di tasse versate dal Sud proviene da Bruxelles e non da Roma. Senza il contributo di Bruxelles, la quota di investimenti ordinari destinata al Mezzogiorno è scesa dal 2010 al 2011 di quasi 7 punti, dal 25,5% al 18,8%, e ancora non sappiamo con precisione cosa sia accaduto nel 2012, se non che la tendenza si è confermata. Fatto sta che, per la prima volta da quando esistono le statistiche, nel 2011 non è stato il Nord ricco a dare qualcosa al Sud, ma il Sud povero a girare qualcosa al Nord. Purtroppo non è una sciocchezza o una provocazione dire che con le proprie tasse i contribuenti del Sud contribuiscono ad aumentare il divario con il Nord, visto che dal 2011 ricevono una quota di investimenti pubblici vistosamente più bassa rispetto allo sforzo fiscale. Ed ecco perché parlare oggi di separazione non è più un esercizio intellettuale o una provocazione, bensì una delle possibili risposte alla rottura di fatto dei principi cardine di uno Stato: l’Italia ha smesso di credere che le persone hanno diritti in quanto individui e non in base alla ricchezza personale. Riassumendo: oggi il Sud è ricco 24, paga 24 e riceve una quota talvolta inferiore, talaltra superiore e in media ormai molto vicina a quanto paga, più qualcosa di aggiuntivo legato ai fondi europei (e che comunque non riesce a compensare il divario rispetto alle esigenze della popolazione). In base alla Costituzione in vigore, il Mezzogiorno dovrebbe pagare 24 e ricevere 34, cioè una quota che permetta a tutti gli italiani di avere i medesimi servizi sociali mentre per esempio la spesa per le pensioni – che è la principale voce di uscita dello Stato italiano – è indirizzata il 75% a beneficiari del Centro-nord e per il restante 25% a beneficiari del Sud, i quali quindi, in sostanza, ricevono quanto si sono pagati da soli, nonostante il fenomeno pur deplorevole degli assegni per le false invalidità. In base alla Costituzione e agli impegni programmatici di ogni Governo, il Mezzogiorno dovrebbe ricevere una quota aggiuntiva di investimenti pari programmaticamente al 45% del totale, in modo da migliorare le infrastrutture e permettere che quel 24 di ricchezza nel tempo salga fino al 34, in modo che anche le tasse pagate dai meridionali salgano da 24 verso 34, mettendo fine al divario che si è aperto dopo il 1860. In realtà la quota di investimenti pubblici nel Mezzogiorno è da sempre sotto la quota programmatica e da almeno 10 anni sotto la quota della popolazione: se ne deduce che contribuisce ad allargare piuttosto che a compensare i divari, come peraltro confermano annualmente i rapporti della Svimez. Inoltre la quota davvero aggiuntiva, e non sostitutiva, che il Sud riceve è soltanto quella che arriva da Bruxelles, perché Roma (irridendo quel che prescrive la Costituzione) non si impegna affatto e sovente assegna al Sud persino meno del 24% dovuto in proporzione alle tasse pagate e nel 2011; addirittura, si è scesi per la prima volta sotto il 20%. Ergo il Sud da solo starebbe in pratica come adesso: avrebbe il poco che può permettersi con le sue forze, più un gettone europeo per realizzare progetti in grado di ridurre il divario con la media della UE. La risposta alla domanda quindi è: rispetto a quanto promette la Costituzione italiana (diritti civili e sociali uguali in tutto il territorio nazionale), il Sud separato ci perde perché da solo non potrà garantirsi i servizi medi dell’Italia, nemmeno se buttasse a mare con un calcione tutti gli amministratori incapaci ed eliminasse gli sprechi; rispetto a quanto lo Stato fa concretamente per il Sud, il Mezzogiorno da solo né ci perde né ci guadagna, perché lo Stato spende nell’area una quota decrescente e ormai più vicina alle tasse pagate dal Sud (24%) che non ai bisogni espressi dal cittadini del Sud (34%). Il corollario di tale ragionamento è che anche il Centro-nord non avrebbe particolari benefici dal distacco del Mezzogiorno. Caduto il velo della propaganda nordista, si scoprirà che non è vero che il Sud è beneficiario di pensioni da nababbi, di sussidi alle imprese più o meno immeritati, di pioggerelle di fondi erogati senza controllo. La realtà è che il Nord non risparmierà praticamente nulla e dovrà continuare a versare come tutti gli Stati il contributo all’Unione Europea, pari allo 0,6% del prodotto nazionale lordo, con il quale la UE mette in piedi il sistema di finanziamento alle aree deboli e quindi al Mezzogiorno. Bisogna però lanciare un avvertimento: in caso di separazione, i conti vanno fatti con onestà e buon senso e non affidandosi ai soliti lombardi, come è incredibilmente accaduto per il federalismo fiscale. Vanno certificati i danni subiti dal Mezzogiorno sia dopo il 1860 – in termini di azioni militari contro la popolazione, di deindustrializzazione e di sottrazione delle risorse monetarie (queste ultime facili da calcolare: 270 miliardi, considerati la rivalutazione e gli interessi legali) – sia dopo il 1990 con il trasferimento a basso costo al Nord di tutto il sistema creditizio pubblico meridionale, per un valore nell’ordine dei 10 miliardi di euro. Andrà anche monetizzato il costo di formazione affrontato dal sistema economico pubblico e familiare del Mezzogiorno per istruire giovani che poi sono andati a lavorare nel Nord. Un costo che conoscono bene i tanti genitori che vedono i figli crescere e studiare, per poi accompagnarli a prendere un treno e, sovente, continuare a sostenerli nell’affitto dell’alloggio durante i primi anni di insediamento al Nord. Sacrifici familiari che, moltiplicati per le decine di migliaia di persone che ogni anno cambiano residenza in direzione Nord, fanno una barca di soldi. C’è anche la sofferenza per la separazione, ma quella non la puoi misurare. Puoi misurare invece quanto costa formare un diplomato o un laureato. Il conteggio puntuale lo hanno effettuato Dario Scalella e Franco Adamo Balestrieri nel saggio La fabbrica di emigranti pubblicata in Domani a Mezzogiorno, una raccolta di contributi meridionalisti curata da Gianni Pittella e pubblicata nel 2010. Il valore economico della migrazione di giovani “skillati” è di 13,2 miliardi di euro in un anno preso come campione (il 2008). 13 miliardi e passa di euro per formare le 57.000 persone che in quell’anno si sono trasferite dal Sud al Nord della penisola con il loro bagaglio di conoscenze, passioni, voglia di fare. Quanti anni di emigrazione vogliamo considerare? Gli ultimi 20? Gli ultimi 50? O tutti i 152 anni? Una volta individuata la cifra complessiva – che siano centinaia o migliaia di miliardi di euro – naturalmente sarà ragionevole suddividere il debito che il Nord ha contratto nel confronti del Sud in un numero di anni tale da non pesare eccessivamente sull’economia settentrionale. C’è poi il tema tutt’altro che secondario del debito pubblico – 2.000 miliardi di euro – la cui spesa per interessi (80 miliardi all’anno) chissà perché non viene ripartita territorialmente nei conti pubblici nonostante siano ben noti i beneficiari. Il debito va suddiviso in modo che se ne faccia carico chi ha in mano materialmente i titoli, perché è costui che ha incassato gli interessi, costati cari a tutti i contribuenti. In pratica, per la quota sottoscritta dagli investitori italiani, il 90% del debito in caso di separazione dovrebbe restare a carico del Centro-nord, visto che la spesa del debito è ripartita appunto con una proporzione molto lontana dalla distribuzione della popolazione, anche se poi giornalisticamente si tende a dire che su ogni italiano anche neonato o nullatenente grava un debito pro capite di oltre 30.000 euro. Per la quota di debito sottoscritta da soggetti esteri si può invece immaginare una suddivisione proporzionata al PIL dei relativi territori e quindi con un rapporto 76 a 24.

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